Fabrizio Lucchesi, Direttore Generale della Roma nella memorabile stagione del terzo scudetto 2000-2001, è intervenuto in esclusiva ai microfoni di Centro Suono Sport 101.5 durante la trasmissione “Crossover“. Queste le sue parole:

Da dirigente, come si approccia al calciomercato?
«Bisogna partire dal presupposto che l’80% della stagione si decide ora, se la squadra farà una buona stagione o meno si decide soprattutto in questi mesi. Chi fa questo lavoro il calciomercato lo vive con entusiasmo, ma ha anche un grande senso di responsabilità e pressione perché sa che se sbaglia ora probabilmente verrà compromessa buona parte della stagione».

Come è cambiato il mercato negli anni, facendo riferimento alla sua esperienza in giallorosso?
«Sicuramente è cambiato il modello societario. Noi avevamo un grande Presidente che voleva portare la Roma in cima alla classifica italiana, e lavoravamo tutti insieme per questo. Oggi è diverso, l’impresa e l’azienda in generale è sicuramente diversa. Sono passati vent’anni, noi credevamo molto nell’appartenenza e nelle radici. Ora invece vedo nella Roma modelli diversi, con pochi giocatori romani e romanisti. C’è stata la scelta di un grandissimo allenatore manager, come allora, ma rispetto al passato sono modelli diversi. Noi credevamo di creare una squadra che prendesse ogni anno 4-5 campioni, oggi invece si punta su buoni giocatori anche in virtù dei pesanti paletti finanziari. Diventa difficile migliorarsi e vincere quando poi devi vendere i tuoi buoni giocatori. Sono periodi diversi che secondo me non sono paragonabili, ma perché i tempi sono cambiati».

All’epoca c’erano limitazioni economiche simili a quelle attuali o si seguiva semplicemente il dettame del Presidente Sensi?
«Oggi si è ricorso a normative che limitano gli investimenti gestionali perché negli anni i club non si sono saputi gestire come avrebbe fatto un buon padre di famiglia nella propria casa. Oggi c’è un organismo terzo che controlla quanto spendi, perché la gente si è fatta scappare di mano il conto economico pur di vincere. Il nostro modello con il Presidente Sensi era quello della famiglia, lui ha messo tanti soldi ma col senno del buon padre di famiglia. Questa era la riflessione base, e noi parte della filiera puntavamo a raggiungere l’obiettivo con competenza e rispettando quanto investito dal Presidente, magari anche meno. Oggi quasi tutte le grandi squadre italiane hanno problemi economici, e il motivo è presto svelato. Io non credo che ci debbano essere regole, ma negli ultimi dieci anni sono state poste: chi non ha problemi finanziari naviga nell’oro, riesce a fare plusvalenze importanti e buoni campionati. Il buon senso è alla base di tutto».

Come ha gestito secondo lei la Roma il settlement agreement?
«L’azienda calcio è l’unica fonte dove partendo da zero, investimenti minimi, riesci a fare plusvalenze quindi cassa e fai il manager. In un anno non riesci a rientrare in un milioni di debito, per questo lo si spalma in più anni. La società si pone un obiettivo finanziario, ma conciliare un obiettivo finanziario con quello sportivo passa attraverso una formula magica. Penso che gran parte dei problemi si risolvano non raccontando bugie ai tifosi, preparandoli a quelli che sono i problemi per evitare i malumori. In questi anni la Roma è stata brava a rispettare gli obiettivi, in modo anche superiore alle aspettative. Siamo pronti a riavere una Roma da primi posti, ma ci sono dei limiti e quando ci sono dei limiti fai fatica: devi partire quasi da zero, senza prendere il campione. Sicuramente l’allenatore preso è arrivato al posto giusto al momento giusto, che riesce a sopperire ad alcune pecche magari tecniche».

In che modo venne gestito l’aspetto economico dal suo arrivo a Roma?
«Arrivai alla Roma nel 1999-2000, quell’anno la Lazio vinse lo scudetto ma io non conoscevo questa rivalità e mi colpì molto l’ambiente. Quell’evento colpì soprattutto la famiglia Sensi, essendo romanisti in modo viscerale. Questo contribuì ad aumentare il nostro piano d’investimenti, che doveva essere triennale e venne anticipato in biennale. Ne parlammo anche con Capello, arrivarono 4-5 campioni e costruimmo un gruppo vincente che poteva competere per il primo posto. Anticipammo gli investimenti, come nel caso delle operazioni Batistuta, Samuel ed Emerson. Questo sotto il profilo della sollecitazione. Sotto il profilo strutturale c’era già dal mio arrivo la volontà di Sensi di riportare la Roma in alto in poco tempo, mettendoci il massimo dell’impegno e col senno di poi siamo stati anche ripagati. In Italia in quel momento eravamo la squadra più forte, in Europa eravamo riconosciuti come tali, e lo eravamo anche nell’anno successivo allo Scudetto».

Come si spiega questo silenzio della gestione Friedkin nei confronti degli arbitri, italiani ed europei, che hanno danneggiato la Roma?
«Penso sia una strategia, e va accettata. Non parlano sui giornali, magari parleranno e renderanno noto il loro malcontento in altre sedi private. Non mi permetto di giudicarli».

Marcello Spaziani